venerdì 21 gennaio 2011

Primo quaderno di considerazioni sparse

 La verità è un composto senza forma.
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Sono nato io? No, non è ammissìbile. Se infatti fossi nato sarei nato da uno stato di non-èssere. Ma il non-èssere, giacché non esiste, non può generare nulla e dunque nemmeno me. Me ne dolgo. Mi sarebbe tanto piaciuto èssere nato, se non altro per dar soddisfazione ai miei genitori che si sono creduti, senza debitamente ragionarci sopra, di tirar fuori dal non-èssere l'èssere: ossìa d'avermi scodellato.
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Il Novecento è stato un duetto tra il nulla e le contraddizioni, tempo infausto di brutali ideologìe che, dalla letale chimera del Comunismo al primitivismo del Nazionalsocialismo, hanno partorito un sècolo di macerie tra i più ripugnanti che abbia patito l'umanità. Il Novecento è stato il sècolo che ha sostituito all'uomo il robot, all'ànima il computer, all'imprudente calata nelle segrete dell'io la pomposa arrampicata alla sciocca luna. Confezionatrice dell'atòmica, la stessa scienza, borioso sfoggio del sècolo, è sfuggita di mano alla razionalità, non dissimilmente dalla speculazione filosòfica che, fàttasi inetta ad una organizzazione sistemàtica, è andata sbriciolàndosi in un subisso d'istinti suicidi: o in echi straziati dell'unità perduta. E non più arte, ma arte come rimpianto dell'arte. E non più mùsica, ma mùsica come memoria della mùsica.
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 L'astrazione rinvigorisce. La riflessione snerva. (Ma Novalis pensava il contrario).
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In generale conservatori e progressisti crèdono nel fluire del tempo: i primi lo contràstano, i secondi lo sospìngono.
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Tornare prima non è nostalgìa di casa. E' possibilità di ripartire prima.
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Tutte le volte che pronunzio o scrivo la parola "ànima" ho la vaga sensazione di confòndere me stesso.
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Democrito e Platone sostenèvano che le sensazioni sono ingannevoli. Non che io sia un sensista accanito, ma, insomma, non esageriamo nel responsabilizzare la Raison.
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Si còntano òpere d'arte teatrali e musicali la cui rappresentazione risulta gravemente disagèvole e rischiosa, non tanto per l'obiettiva problematicità della loro realizzazione scènica e musicale, quanto perché esse risièdono nel cuore della gente come un patrimonio prezioso e inalienàbile: guai a scalfirne la lucentezza e la travolgente càrica emotiva. Rappresentare una tra queste opere è incitare lo spettatore a metter in piazza i propri ideali affinché ne esàmini la consistenza e ne verìfichi la plausibilità. Chi rappresenta e intèrpreta "Romeo e Giulietta",  "Amleto", "Lohengrin", etc.... si trova nei panni di colui che porta la nuda realtà a chi l'ha sognata, coltivata e sublimata nell'attesa: l'incògnita è provocare una cruenta e "inaccettàbile" disillusione. E' noto che è tollerato l'inganno ma non il disinganno.
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 La spiegazione esaustiva dell'essenza di un'òpera d'arte è impresa inattuàbile come la spiegazione del pensiero che pensa sé stesso. Nel momento in cui tenta d'illuminare l'enigma, la ragione si rompe, presa da una sorta di graduale vòrtice che la paralizza e sbaraglia. L'òpera d'arte rimane per l'uomo, che pur l'ha forgiata onde placare il proprio èssere estètico, desiderio di possesso inappagato.
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Ogni cosa è racchiusa nello spazio. Ma anche lo spazio è "cosa". Che cosa lo racchiude?
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 La realtà è ciò che è. La mùsica è ciò che non è. Che cosa rappresenta l'arte per la vita? Nulla. Forse ghirigoro dello Spirito, Presunzione, indolente décolleté dell'Anima. Anzi, l'inviolàbile bellezza dell'Arte fomenta la pena della vita. Fra realtà e arte persiste una dicotomìa irresolùbile: donde il senso d'arcana melanconìa che effonde la mùsica. Il sentimento del vìvere è estràneo, talvolta ostile, al sentimento dell'Arte, già che l'Arte, a differenza della realtà che l'uomo sconta, è un'ipòtesi meramente vanitosa. Mi domando che cosa possa favoleggiare all'incartocciarsi dei giorni e delle notti quella superba mònade.
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I cinque sensi mi sembrano francamente pochi a rimpetto delle mie giudiziose esigenze.
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Nel gran colare dei sècoli mùsica e danza sono venute via via complicàndosi: forse specchio dell'ànima. Nel Medioevo: poche e caste melodìe ed interminate titubazioni nel
mòvere l'appartato corpo. Nel Quattro e Cinquecento, un insòrgere progressivo ed incuriosito d'ardimenti, ancorché irriprovèvoli, nelle linee più mosse dei suoni, più plàstiche delle mani e delle gambe. Nel Barocco, le volute, le incipienti vezzeggiature, le malizianti allusioni ed i languori felici  nelle immàgini musicali, e nelle presenze donnesche, flessuose come spighe. Si sa, dipoi l'Ottocento, per taluni "stupidìssimo", ha decretato per mùsica e danza il crepùscolo dei pudori, nelle spire galanti del valzer. A tacer del Novecento, Dio ce ne scampi, il quale, giù la màschera, èccolo nella smoderanza più abbaruffante, nello smaniante e crudìssimo bordello in che sono state astrette, ed hanno penato e vorticato, mùsica e danza, dando in ciampanelle, ahiloro!
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 La mendace determinatezza della parola non si confà all'evasiva complessità del pensiero, né ai suoi inesàusti smottamenti.
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Dalla metà del Novecento l'esigenza di religiosità si esprime nel linguaggio artistico con accenti contraffatti, con làbili architetture, con i caràtteri di un'esasperata soggettività in luogo di una tetràgona oggettività. Un tempo, nel guardare ai suoi sìmili, l'uomo si credeva di cògliere il baleno d'una presenza trascendente; oggi tenta di mirare la divinità senza più guardarsi d'intorno. Tenta una propria via alla salvezza, e, dubitando di se stesso, dùbita d'ogni altro èssere e percorso. La frantumazione dell'io è ciò che ormai accomuna il sìngolo alla massa.
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Il pàrroco dal pùlpito aveva appena pronunziato "In orìgine...." che dalla penombra de' banchi più rimoti s'udì educatamente mormorare: "Non c'è traccia d'origine".
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 L'intelligenza risiede anche nel talento d'organizzare e indirizzare la sensibilità secondo criteri e fini razionali. La sola sensibilità può dare l'emozione, lo stupore, la prospettiva, il vago senso del profondo, l'intuizione provvisoria e fuggèvole. La sensibilità procede per folgorazioni, per stati d'ànimo "ingenui" ed èsili che si frantùmano e dileguano al primo ostàcolo che incòntrano, alla prima obiezione. La sensibilità ha da sola una purezza ed una verginità troppo cedèvoli per èssere affidàbili. E' una dote incline a lasciarsi traviare e consumare. Essa da sola non parla e non comprende alcuna lingua: è un desiderio di possesso inappagàbile, che sfocia nel possesso fittizio di una larva.
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Ogni fortezza intellettuale e filosòfica è insidiata da un cavallo di Troia che può demolirla in breve lasso di tempo. Solo la fortezza della fede non ne è insidiata. Anzi, è essa stessa un cavallo di Troia, anzi, è il cavallo di Troia par excellence.
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Sarà vero che Caso e Determinismo si contrappòngano? E' assurdo parlare di un fèrreo determinismo del Caso? Ma tu che mi fai domande sì intricate, che caso vuoi?
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Che gran baroccheggiare è l'òpera "seria" barocca! Paffuta divinità indiademata, se ne va fulgendo ed ardèndo d'immàgini rettòriche tempestate di ghirigori, di proposizioni faconde ed incontinenti, d'affetti affettati, donde linfa preziosa tràggono a sé le molli schiere d'eroi ed eroine che sollèvano i petti nel limbo della più irreale finzione teatrale. Baraonda dell'immaginazione e vorticosa giga dell'inventiva, smoderata medusa che tentàcola l'universo e le sue cose, e tutto lancia in un gorgo di stupefazioni cui è sotteso un tràgico nulla. L'òpera "seria" barocca è evento fra i più fastosi e nevrastènici che abbia lo spìrito della civiltà occidentale tentato nel corso del peregrinare d'era in era. Fàcile e pure meschino fu nel sècolo seguente, il sècolo della Raison calmieratrice, accusare quelle trascorse delizie barocche di stravagantìssima bizzarrìa, d'insaziàbile ostentazione. Tutta invidia! come quella provata da chi disprezza ciò che più non ha: nella fattispecie un tùrgido estro ormai assottigliato in birbona lama illuminista.
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Càpita che l'attesa troppo prolungata di un evento auspicato sia càusa di un progressivo accrescimento delle aspettative, le quali, nel momento in cui l'evento si verìfica, vanno deluse in ragione di quella dilatazione delle speranze da cui l'attesa era sostenuta e confortata.
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Nel fondo della notte rotta dai ghiacci barbagli inoculati dalla luna, otto guerrieri si chìnano sul corpo dell'eroe defunto, lo sollèvano sulle spalle e con strazio ammutolito lentamente lo condùcono entro la foresta. E' qui che deflagra la "Marcia funebre" di Sigfrido. E' bene ascoltarla a Bayreuth - nell'enimmàtico teatro votato a Wagner, tra le mura che sepàrano l'incontaminato misticismo dal decorso del tempo -  per intuire l'angoscia e la spaventèvole luce che sprigiona la pàgina wagneriana.  Non è teatro, o illusione, o spettro estètico, ma una specie d'energìa primigenia dell'èssere che si capovolge mettendo a nudo le nodose radici che lo congiùngono ai fondali dell'umana coscienza. La "Marcia funebre" di Sigfrido è disperazione che percorre, come il corpo dell'eroe nella foresta, l'itinerario dalla disfatta alla verità conseguita; è proclamazione del ritorno all'indistinto, all'Uno-Tutto; è il sacrificio dell'eroe che purificherà l'esistenza dalla dannazione di èssere e dalla vanità dell'agire. Nel corteo luttuoso dell'eroe seguiranno, lasciàndosi dietro il Walhalla in fiamme, gli Dei che primi fra tutti dèttero esempio di peccaminosa alterigia e fralezza. Al fondo del male non c'è il bene ma l'espiazione, prima, la voluttà della fine, dopo.
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Mi faceva osservare un contraltista: "Guarda te, senza testa si pensa male ma senza testìcoli si cantava bene".
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Nei memorandi "Saggi sulla storia del Rinascimento" Walter Pater annota che ogni arte aspira costantemente alla condizione della mùsica. Benché sia questa un'affermazione di chiara ascendenza romàntica, non è da esclùdere che la mùsica sia la più universale delle arti nella misura in cui la sua lingua e il suo segno, a differenza di quelli delle arti visive e letterarie, prescìndono dal riferimento semàntico al dato fenomènico, per porsi quale pura espressione dell'Io, ovvero dello Spìrito. In tal senso la mùsica è astrazione, un universale nel quale ogni uomo,  pòpolo, civiltà riconòscono la manifestazione immediata di sé. Quando di conseguenza Goethe afferma che la mùsica rappresenta un tempio attraverso cui noi entriamo nella sfera del divino, appalesa con tèrmini "alati" le teorìe estètiche degli Idealisti tedeschi, che reputàvano il linguaggio dei suoni espressione sensìbile del Logos.
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Leucippo e Democrito sostenèvano che la terra è di forma sfèrica. Anassagora, maestro di Pericle, garantiva invece che è piatta. C'aveva ragione lui.
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Arte o consumo? Boucher o Boucheron?
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Alcuni direttori d'orchestra dirìgono. Altri fanno soltanto "spettàcolo" mìmico. E tra questi ùltimi c'è chi fa spettàcolo di quart'òrdine, nel senso che ambirebbe ad estrinsecare nell'accentuato gesto plàstico della bacchetta, e del corpo tutto, il disegno e la dinàmica interna dell'òpera musicale, senza per ciò riuscire a tradurre le intenzioni del gesto in una corrispondente realtà di suono orchestrale. Tali direttori pòssono ingannare per breve tempo l'inesperto volgo, ma non la mùsica, che si vèndica mostrandosi loro indecifràbile.
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"Dottore, mi sento terribilmente fiacco....". "Non se ne dia pena. E' una carenza di rimorsi".
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Se non è il "contenuto" a generare la "forma" nel momento in cui esso diviene materia di poesìa; o se non è la "forma" a determinare il "contenuto" nel momento in cui essa diviene libero gioco della fantasìa; vale a dire, se tra "forma" e "contenuto" non si instàura un rapporto d'interdipendenza e necessità, ebbene ciò che dovrebbe èssere "arte" - a qualsìasi espressione linguìstica ci si riferisca  - altro non è che "esercitazione intellettuale", potenza emotiva non attuata in entità artìstica...
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La diciottenne pretende ormai la quarta. Sgambetta dal chirurgo estetico, ad ingollar silicone. Invero non più l'appaga un seno cònsono alla natìa corporatura. Ambisce ad assurgere a pupona dal davanzale screanzato: esige l'orgia delle poppe, a maravigliar il mondo de' boys e delle ìnvide amiche. Or sono anni (ed ancor oggi) si costumava inturgidire le labbra: straripanti labbrone quali cornici cardinalizie ad un antro incontinente. E seguì poco appresso la moda dei cocò pomposi a mo' di colossali melloni: da ondeggiar qua e là nel vortichìo di coribàntiche fantasticherìe. Viviamo tempi d'iperbòlici corpi donneschi, imbottiti non meno dei tramezzini giganti che appena ne mordi un verso, dall'altro ne schizza lo sbardellato ripieno. Non paia surplus di scetticismo la congettura che tanta cupidigia di forme butirrose risponda nei giovani alla tràgica constatazione che non gli è conceduto d'imbottir il cervello: vuoto affatto (prima misura, al più). Non già che ce l'avèssero vuoto alle orìgini. E' il mondo scannato e bìschero degli adulti che gliel'ha reso tale. Irremeabilmente.
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La timidezza è una distillatrice di sentimenti.
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Arthur Rimbaud primo fra gli altri poeti capì cose prodigiose: ad esempio, che la "O" è bleu, "supreme Clairon plein des strideurs étranges". Ed una notte compì un gesto per nulla ordinario: prese la Bellezza sulle ginocchia e la trovò amara e l'ingiuriò. Eppoi coltivò la propria sitibonda natura messiànica nel vòrtice dell'abiezione: e ne cavò immacolate tensioni al divino. Fu il  più "maledetto" tra i poeti, più di Verlaine, Mallarmé e Corbière, perché lui solo distillava voluttà dalle verità più temerarie e abominèvoli. E una mattina di vertiginose ebrietà proclamò "Voicì le temps des assassins". Fu "così tediato e turbato da condursi semplicemente alla morte come ad un pudore terrìbile e fatale". E l'amico e amante Verlaine lo descrisse dal volto ovale d'àngelo in esilio, in disòrdine i capelli d'un colore castano chiaro, e sguardo d'un inquietante azzurro. Rimbaud cercava o inventava crudeli palingènesi del mondo e del cuore traviato degli uòmini attraverso allucinazioni carezzate nelle taverne più malfamate di Parigi. E si disperò per ricondurre l'amore con tutta la sua genialità e depravazione morale alle fonti d'una còsmica purità, e sognò impossìbili rivolgimenti, giustizie utòpiche, efferati benèsseri, e si commosse per miti e mìnime gentilezze d'ànimo. E ancora giòvane si tacque, e in quel silenzio dette epìlogo ad un'assenza che valeva quanto l'esigua poesìa scritta. Arthur Rimbaud, poète maudit, nato nel 1854 a Charleville, nelle Ardenne, defunto nel 1891 a Marsiglia per cancro al ginocchio.
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 Dopo che Hegel pervenne alla conclusione che "Das Wahre is das Ganze", ossìa "il vero è il tutto", non fu più offerta onesta possibilità di filosofare.
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Non è stato ancora stabilito dai filòsofi se l'Uomo e la Natura compòngano un'ùnica realtà o una dualità. E, nel caso della dualità, se siano amici o nemici. E, se nemici, se sia pronosticata la vittoria dell'uno o dell'altra. Fino ad un tempo l'uomo ha sottomesso la natura, ma già da più di due sècoli sembra che la natura voglia prèndersi la rivìncita. Se sono un'unità, uomo e natura periranno insieme: nel perenne metamorfosarsi dell'universo. Se per contro sono entità distinte, la battaglia sarà formidàbile e apocalìttica. E se mai dovesse aver la meglio l'uomo, come avrà mai egli la forza occorrente ad  intraprèndere la guerra ben più sanguinosa e gràvida di tremende conseguenze contro il supremo nemico, o sia se stesso?
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Sono nel falso sia l'ottimismo sia il pessimismo. La "realtà" risiede e si rispecchia nell' "indifferenza" meccanicìstica del cosmo, cui non si confà la commiserèvole inadeguatezza del pensiero e degli aborti suoi.
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 Il passato rinasce dalla Storia ma rivive nell'Immaginazione, ove diviene presente, o, meglio, eterno presente: l'ùnica dimensione temporale sia pur illusoria su cui l'uomo possa far affidamento senza paventare tiri birboni. E' d'uopo sospettare della Storia non tanto perché, contrariamente a quanto  asserito da molti, è maestra di prave ed ineleganti morti, né perché scritta sempre, uggiosamente, dai vincitori: genìa inattendìbile quasi quanto quella degli sconfitti, già che l'una e l'altra sono destinate a durar poco o punto, ogni volta. Bisogna diffidare della Storia perché essa tratta di ciò che non esiste (più): ed intorno a ciò che non esiste, ça va sans dire, è ragionèvole risoluzione tacersi. Affidiàmoci piuttosto alle dovizie spumeggianti dell'Immaginazione: di colei che Malebranche teneva per "la pazza di casa" e Longanesi per figlia diletta della libertà, e taluno, lungimirante, per l'acèrrima nemica dell'arbitrio. Se desideriamo intrufolarci tra le misericordi e cedèvoli nùvole del passato, lasciàmoci aggredire dal piacere d'architettare una realtà che dal nulla si fa nostra. Forse andremo così per cose, uòmini, miti, eventi che mai sapremo se attendèvano nei meandri dei nostri cuori, oppure nei bigi sepolcreti apparecchiati con sapienza dalla fuga de' sècoli.
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La realtà è data dal fatto che ciascuno è costretto al proprio tempo. Il balzo in avanti o il cammino a ritroso, le fughe nel futuro o lo sguardo al passato, la proiezione nelle utopìe o il tour nelle memorie sono le scampagnate fuoriporta. Poi si rincasa e con vario stato d'ànimo si torna a usare e manovrare le quotidiane cose, in virtù delle quali noi abbiamo senso e significato o, più semplicemente, siamo. Il nostro tempo? Siamo ridotti ad un presente che sembra aver risolto d'èssere istituzionalmente òrfano del passato per tentare l'ebra e risicosa impresa d'èssere "pòstumo". Gia, "èssere pòstumo": voler èssere ciò che non si è, ma che si potrà forse èssere se la realtà andrà secondo gli itinerari progettati dalla nostra fantasìa nei dì festivi. Si vive così su una zolla di terra collocata in mezzo all'ocèano, e le cose che usiamo e manovriamo assùmono la sfuggevolezza e l'incertezza del luogo in cui si tròvano insieme a noi.
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 Il popolo nederlandese non sa fare arte come quello italiano, ma la rispetta e ne cèlebra i valori assai meglio d'un pòpolo cosiddetto creativo come quello del consunto Stivale.
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Al nederlandese non difetta quell'attitùdine alla distinzione fra pathos e rettòrica che manca affatto all'italiano, così reso spesso insopportàbile e sospetto.
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 Fra i nederlandesi ed i tedeschi la stessa differenza che corre tra la tentazione ed il peccato.
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Accadde or sono molti anni, e pare ora ridèvole inverisimiglianza, o tiro mancino della làbile memoria. Accadde che nella sterminata e obbediente Cina, l'onnipotente vedova di Mao Tse Tung  avesse inibita alle indìgene masse popolari la fruizione della mùsica di Beethoven avèndovi ravvisato un micidiale tòssico e insieme un'effigia sonora di quel demoniesco spìrito borghese da cui la civiltà occidentale e capitalìstica era permeata e contraffatta. "Musica reazionaria", metteva in guardia l'ortodossa monna Mao; mùsica d'aristocràtiche conventìcole plutocràtiche; mùsica dell'io egemònico e ghiribizzoso che s'oppone alle schiette esigenze d'arte delle genti democràtiche, etc... Non si può del tutto negare che nelle sue farnètiche strampalerìe la prefata "sentinella" cinese avesse colto - seppur sùbito deformato - un dato precipuo della spiritualità beethoveniana. Vale a dire l'insòrgere di un tumultuante individualismo, di una indomàbile soggettività, di una fantasìa e d'un ìntimo moto ùnici e irrepetìbili che il compositore tedesco fonda e scolpisce con la propria mùsica, contro l'educata oggettività della mùsica del "Classicismo" settecentesco. La mùsica del sècolo dècimo ottavo era frutto di una società. La mùsica beethoveniana appare invece formidàbile barbaglio dell'uomo che si erge sulla comune sensibilità, a rigenerarla in contrasto con le contemporanee norme poètiche e linguìstiche. Prima di Beethoven la mùsica era coscienza del cànone, con lui diviene libertà della coscienza. E quello che era artigianato del compositore diviene febbre dionisìaca del creatore. E come l'emancipazione del pensiero moderno si era realizzata con la rivoluzione della metafìsica cartesiana, che aveva posto l'io al centro e signore dell'universo, la mùsica d'arte si configura con Beethoven quale suprema voce poètica di quell'"io" che non tòllera duplicazioni.
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Nessuno mi ha tanto persuaso circa la natura del mare quanto Empedocle d'Agrigento, il quale asseverava che esso è il sudore della terra.
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Da taluni si afferma che non è essenziale dare una risposta al problema quanto porsi il problema. Riteniamo l'affermazione sommamente inesatta. Importante è non porsi affatto il problema, ché i punti interrogativi àgitano e distrùggono l'èssere umano, negato al "vero" per sua stessa natura. E dunque sostituiamo quei punti interrogativi traditori con le più savie e benèfiche vìrgole. Come a dire: smettiàmola di sussultare e cadenziàmoci.(Per tale ragione preferiamo la letteratura europea del Settecento a quella dell'Otto-Novecento)
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Se la realtà è inconoscìbile, verità e menzogna coincìdono.
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Quand'è mattina, e per di più mattina acerba non avendo la giornata ancora assunto il ritmo degli accadimenti serrati, anche la mùsica deve èsservi adeguata. Occorre una mùsica che accompagni con garbo leggero l'indolente avviarsi delle prime ore; mùsica che, per innata discrezione, non richiami né ècciti i turbamenti del pathos, che se ne sta ancora intorpidito nelle più brumose regioni della sensibilità, magari dopo aver tumultuato al proscenio sino alle postreme ore della notte. Del resto, piaccia immaginare che la storia dei vari stili musicali della civiltà occidentale succedùtisi nei sècoli, null'altro sia che un repertorio di condizioni sonore, ciascuna delle quali s'attaglia perfettamente alle sìngole condizioni spirituali dell'èssere nostro, quale si viene svolgendo nell'arco di una vita come d'una giornata. Piaccia pensare, per esempio, all'inarcarsi di Beethoven nel meriggio più estuoso, e alla mìstica purità del Canto gregoriano che inonda i crepùscoli; al Romanticismo, padrone vorace delle sere da tregenda che digràdano alfine verso una pace mista di beatitùdini bruckneriane. E piaccia così ricordare pàgine barocche di Haendel, Alessandro Scarlatti e Bach, e alcune voci melodiose come quelle d'un Mozart giòvine e galante che rècano di prima mattina la trasparenza di liete decorazioni, vaghe linee esornative a fior d'aria, che fanno della forma un alone di luce atto a secondare qualsìasi moto della nostra fantasìa, purché compito.
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Vorrei la mattina, al risveglio, consultare l'elenco telefònico dei sentimenti per fissare un appuntamento in giornata ora coll'uno, ora coll'altro. Che splèndida giornata sarebbe!
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L'arte non è polìtica, non sociologìa, né morale, semmai tensione estètica volta ad un "assoluto" emotivo che si riflette, a posteriori, su ogni dimensione del reale, e quindi anche sulla polìtica, sulla sociologìa, sulla morale. In quanto sublimazione del concreto, l'arte trasfigura ed eternizza il quotidiano disponèndolo secondo un criterio che non obbedisce alla razionalità ed alla lògica dell'empirìa bensì ad un ordinamento superiore della libertà fantàstica. L'arte, a differenza della filosofìa, non coltiva tesi; a differenza della scienza non perscruta fenòmeni naturali. Il soggetto-artista ritrae solo se stesso, ancorché condizionato dal mondo dell'esperienza sensìbile.
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Sono tìpici di uno spìrito grossier i sentimenti enfàtici.
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La "Nona" non è l'ùltima sinfonìa di Beethoven. E' la prima di un mondo che deve ancora venire e che non verrà mai, che però l'uomo attenderà ad vitam aeternam. Essa è l'utopìa dell'èssere umano; utopìa le cui gigantesche architetture aspìrano a menare al canto della gioia, alla conquista delle vìscere della felicità, generatrice di vita. Di là dalla "Sinfonia in re minore" si estende la plaga del silenzio: come dopo una sacra danza lo spìrito rapito s'abbatte esàusto. Ma pure non è la bellezza estètica il fine ultimo di questo opus summum. E' invece un ideale ètico di matrice umanìstica, e più ancora illuminìstica, che pone al proprio centro l'affermazione perentoria dell'uomo e della sua ragione. Nella "Nona" il candore di Beethoven si riversa in un'esplosione di pathos sul quale il linguaggio musicale si plasma come invasato, torcendo le vecchie norme morfològiche, sbaragliando gli adusati procedimenti sintàttici, sovvertendo a tratti le leggi del rapporto tra càusa ed effetto. Vi sono abbattuti  i cànoni del "Diletto", della "Bella Maniera" e del "Decoro", ancora variamente serbati nelle precedenti Sinfonie del compositore. La mùsica si fa aspra, accidentata, screanzata: e quand'anche s'affidi alla dimensione lìrica, come nel celestiale "Adagio molto e cantabile", la poesia s'espande e rastrema a tal fatta che resta a noi un'ansia sottile d'inappagamento: il rinvio ad un "quid" inesprimìbile. In guisa non dissìmile dal coronamento del canto corale sul testo dell'"Inno alla gioia" di Schiller, che mareggia in petrosi blocchi contrapposti, quasi a comprìmere le voci in un incesso dall'afflato demònico.
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Il senno dovrebbe suggerire all'ormai inaridito uomo di passare dall'esangue culto degli ideali alla fruttìfera coltivazione delle sensazioni.
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A prima vista parrebbe cosa fàcile, ma in verità è proprio difficoltoso tirare una linea retta che separi il candore dalla stupidità.
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Perché nell'evoluzione della specie l'uomo ha tracimato dall'òrdine sovrano del cosmo?
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Il canto vocale inserisce nella mùsica d'arte quell'elemento umano che ne depotenzia e svilisce la perfetta astrazione.
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Di frequente le parole ci dìcono di più con il loro suono che con i loro volàtili contenuti.
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La lettura dell'"Ulysses" di Joyce, l'ascolto di una composizione dodecafònica di Anton Webern, la vista di una tela di Hans Hartung risùltano cimento aspèrrimo, quasi disperato, ai più. Queste òpere ardite, a prescìndere dalla qualità estètica, appàiono senza dubbio ostili sul piano linguìstico alla comprensione di massa. Donde il noto quesito: l'arte dev'èssere segnata da una destinazione sociale, èssere necessariamente "popolare"? E' da crèdere che in virtù dei suoi contenuti "raffinati" e dell'elettezza formale, essa sia riservata ad una minoranza previlegiata da una sensibilità e da una cultura specìfiche. D'altronde, milioni di persone càdono in deliquio di fronte a stars rockettare:  non altrettante all'ascolto dell'esotèrica "Arte della fuga" di Bach. E, per altro verso, quanti àmano la "Cavalleria rusticana" di Mascagni e quanti la "Goetterdaemmerung" wagneriana? Gli è che l'arte più s'innalza, più si stacca aristocràtica dal mondo. Affermava Oscar Wilde che l'arte non deve mai farsi "popolare": al più è il pòpolo che deve ingegnarsi a diventare artìstico... L'arte non è serva delle folle e l'arte "popolare" è una contraddizione in tèrmini.
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Il silenzio è il più capiente contenitore dell'afflizione.
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Il "Requiem"di Mozart emana un  fascino ineffàbile ma racchiude un enigma forse insolùbile. Opera tra le più alte dell'arte occidentale, esso è lavoro per buona parte incompiuto per la sovraggiunta morte del Salisburghese. A completarlo con interventi di vaste proporzioni fu un amico ed allievo di Mozart: il venticinquenne Franz Xaver Suessmayer, figuretta di musicista routinier. Nondimeno il "Requiem" risulta "perfetto" nella propria unità, una mònade paradigmàtica dalla prima all'ùltima nota. Il problema è dunque comprèndere come uno stato di mediocrità (quello di Suessmayer) sia capace d'elevarsi alla luce del genio (quello di Mozart), come sappia congiùngersi ad esso, e con esso cantare all'unìssono, e protrarne fedelmente l'eco senza scalfire l'eccezionale possanza dell'ispirazione archètipa. Per certo non sono sufficienti a sciògliere i nodi del problema le indicazioni che Mozart dette in fin di vita al discèpolo per il compimento del "Requiem"... Forse il valore creativo - qualunque esso sia - è determinato e variàbile in base ad eventi di natura imperscrutàbile che giùngono nei sotterranei dell'uomo, a sua insaputa, e che di volta in volta costituìscono la "verità" del suo èssere. Occorre far subentrare alla storia dell'uomo la storia delle òpere considerando l'uomo la loro mera occasione? In tal caso però, se per un verso l'uomo diverrebbe egli stesso parte indistinguìbile dell'òpera universale, per altro vedrebbe negata la propria individualità, ove risièdono la sua coscienza e la sua arte.
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In ogni tempo e in ogni dove trattare di felicità è risultato argomento illògico e fazioso, vagamente irritante e dichiaratamente tòssico. Del resto la fortuna non dà felicità, l'amore non dà felicità, l'educazione non dà felicità, la buona salute non dà felicità, né la dànno la cultura, l'intelligenza, il danaro, la bellezza... Ma chi mai ardirebbe farti felice, in tal modo sommovendo il làbile equilibrio del cosmo? La felicità ti maldispone perché è più esigente d'una sposa legittima. Nel più fausto degli accidenti sia tollerato ipotizzarla come forma d'arte: non a caso la Yourcenair assicurava che "ogni felicità è un capolavoro". C'è invero da sospettare che tra l'uomo e la felicità covi, ab origine, una specie di diffidenza o d'ignoranza recìproche: l'una non sa dell'altro, e viceversa. Così che colui che ne discetti, della felicità, s'avventura a mo' di Cristoforo Colombo che nell'opinione di guadagnare le Indie Orientali toccò notoriamente le Occidentali: con incalcolàbili conseguenze per gli accadimenti dell'umanità tutta.
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L'Italia, una repùbblica fondata sulle parole.
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Dividerei gli uòmini in due categorìe: capre e capre espiatorie.
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"Beati pauperes: quia vestrum est regnum Dei" (Luca, 6, 20)
La miseria s'incàrica ogni giorno di divorare il mondo. Miseria ferale che incolpa la nostra mediocre civiltà: vanitosa di sé e ignorante dell'altro da sé. Una civiltà che nel nome di un ribaldo e vacuo Progresso strapiomba nell'edonismo insulso, nella tecnologia reificata, nell'intolleranza untuosa, nella scienza forsennata. L'uomo moderno, non meno coglione che supponente, si è votato con gran zelo al Regresso. A lui dintorno, sotto smaglianti luminarie, ecco ruine e macerie. Sotto màschere e bistri folclòrici, vòlti cavi e cuori piagati. Nel nome della Prosperità, il muto consumarsi delle genti questuanti ai lembi o all'interno dell'Eden occidentale. Le Chiese denùnciano e gli Stati assèntono per buona creanza alla denuncia intanto che prosèguono nella trafelata corsa agli interessi domèstici (detti anche "patriòttici"), ricavàndone vuoi un'amarezza celata in scheletriti successi econòmici e in un traballante benèssere, vuoi un'infelicità ammantata di vergognosi appagamenti. Si potrebbe obiettare: da che mondo è mondo non c'è stato benèssere senza indigenza, e viceversa. In realtà l'uomo è un èssere dèbole, e assai più cachèttica è la sua propensione all'elevazione spirituale, la sua coscienza operante. L'uomo è il fantoccio dei sogni ed il lacché della propria limitatezza morale. Se puntàssimo sulla sua intelligenza correremmo un rischio tra i più compromettenti, stanti la minùscola Storia e il mesto presente dell'umanità.
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Esclama Crizia: "Terrìbile quando un pazzo pare savio". Ed Eschilo: "Gran vantaggio, che un saggio sembri pazzo". E La Rochefoucauld: "La plus subtile folie c'est fait de la plus subtile sagesse".
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Pausa. D'incanto si dissòlvono le fumee dell'ànima, i fastidi del vìvere, la monòtona vessazione del reale. E si dischiude la prospettiva che auspicavo e di cui, insieme, disperavo: orizzonte di bellezza,  d'alte passioni, di casti trionfi, nel quale l'eterna armonìa dello spìrito si ricompone e vibra di sé: quale luce che attiri e riòrdini i pulvìscoli vaganti, la messe dei dispersi baluginìi...
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Un amico mi confidò d'aver conosciuto un cretino con un alto quoziente d'intelligenza. Una boutade? A ben riflettere manco troppo. Impossìbile inquadrare e definire rigorosamente questa dote rara che sta di casa nel cervello e che non si chiama sensibilità, non intùito, né furbizia o malizia, ma tutte queste cose assieme ad altre ancora. Garantiva Bertolt Brecht che l'acuità mentale non si èsplica nel non pèrdere una battaglia, ma nello scoprire il modo di trarre adeguato beneficio dalla sconfitta. Forse il drammaturgo tedesco esigeva troppo dal comprendonio, che suole diffidare di tutto e tutti: in specie di se stesso... Ma già sento aleggiare l'obiezione: "Bada che la dote di Minerva è una chimera soltanto per coloro che non hanno mai ingravidato la Dea"... Boh! A ragionar di celloria rischio di ringrullire.
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Nessuno mi può accusare, io ce l'ho messa tutta ma mio malgrado sono sempre stato costretto a fare i conti senza l'oste. Non si è fatto mai trovare: forse perché mi era debitore.
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Se vuoi sapere di quale sostanza misteriosa e grave sia amore affìdati a due evangeli: "Giulietta e Romeo" di Shakespeare e "Tristano e Isotta" di Wagner.... Amore e morte, dirai tu? Già, ché morte è congedo d'ogni amante dallo stato di frammento, e amore è corsa degli amanti all'Uno-tutto primigenio.
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Salisburgo allieta e Bayreuth avvinghia. Nella città mozartiana i sensi dànzano gàrruli e vaporosi, nel "Tempio" wagneriano lo spìrito s'immerge in un lavacro metafìsico e tetralògico.
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E se smettèssimo per una volta la mùsica altisonante, che suona i vani miti e gli intrugliati meandri dello spìrito? Ché tanto non se ne viene a capo degl'immani contenuti. E se per una volta ci abbandonàssimo alla mùsica lieve, che non dà pensieri gravi, né ardisce ingenerar tumulti villani?... Sono rare siffatte mùsiche, giacché o rùzzolano nel triviale, o sono finta semplicità, più disdicèvole della peggior lambicattàgine. Non è semplice crearle poiché necèssita a' loro autori stare in mezzo alle cose e in specie agli umani (appena un mezzo centìmetro sopra), carezzarne da presso chimere e magoni, blandirne i più fatui pàlpiti, le più melense mestizie: impastare il tutto in finìssimi dosaggi e spalmarvi sopra quasi con inavvertenza colature di zùccheri velati. (Specialisti ne sono stati, ad esempio, i componenti la valzeristica schiatta straussiana).
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Esiste una mùsica d'arte che partècipa del mondo dello spìrito, insieme alle altre espressioni del linguaggio artìstico (poesia, pittura, etc...). Ed esiste una mùsica di consumo, che partècipa del mondo della contingenza, del trascòrrere delle mode, etc... La mùsica d'arte esprime valori permanenti; la mùsica di consumo soddisfa le inclinazioni ed infatuazioni momentanee di una società. L'òpera d'arte musicale vive fuori del tempo, o distesa sul fluire del tempo. Il pezzo di mùsica di consumo è soggetto a deperire insieme all'esigenza passeggera che l'ha promosso. "Fidelio" di Beethoven dà voce in forma estètica agli anèliti più arcani che l'ànima avverta in sé; la canzonetta di successo si prostra ad un'esigenza d'attualità intesa quale fugace frammento di una realtà in lesta metamòrfosi.
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Da ragazzo rimasi incantato dall'accenno novalisiano alla "voluttà del contatto con l'acqua".
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Sappiamo il gran dolore del conòscere. Nella fattispecie, degradando a livelli gnoseologicamente meno impegnativi e curiali, il gran dolore del conòscere la mùsica pianìstica italiana frammezzo le due guerre mondiali del Novecento. Ove le ambizioncelle dei compositori indìgeni erano assai, ma i loro èsiti, quali minùzzoli e briciolami, erano d'una pauperie convenientìssima a un misericorde oblio. Chi si rammenta di Fuga, Montani, Porrino, Davico, Pick-Mangiagalli, Santoliquido...? Gli èsiti? Ricalchi & ricalchi. Sovrattutto, e in modo assillante, di Debussy, delle sue liquescenti àuree impressionìstiche; ma anche di Prokof'ev, delle sue ardenze percussive; e un poco meno di Stravinskij e dei suoi timbri alchèmici. Null'altro che una patente scimmiottatura, estranea a urgenze creative. Volàvano ali corte, si adombravano esauste immàgini; scrittura mansuefatta e provincialìstica di chi se ne sta appiattato nelle retrovie, a far solecchio. D'altronde era non soltanto l'ìtala mùsica in fase di menopàusa, in allora, bensì lo stesso pianoforte che, dopo l'erta trionfante ai fastigi dell'Ottocento romàntico - beninteso, mitteleuropeo, non italiano - all'alba del Novecento sdrucciolava sulla via del declivio, per giùngere insino a l'altrieri franto e vano alla mùsica. Oggi nessuno strumento più del pianoforte risulta muto al compositore. Che, avendo bricconeggiato nelle convulsive stagioni dell'egemonìa avanguardìstica e della "Neue Musik" tra gli anni Cinquanta e Settanta del perento sècolo, s'è incarognito contro la di lui tastiera: e glien'ha combinate di tutti i colori, al costernato pianoforte, liso malloppo di corde gemebonde, ammaccato contenitore d'alloccàggini manuali... Oh tempora! (e, all'uopo, anche oh mores!).
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Antico memento greco. "E' doveroso onorare gli dèi e gli eroi. Non tuttavia nella stessa maniera: gli dèi con lodi, in vesti bianche e in purità; gli eroi da metà giornata. Quanto alla purità, essa si consegue mediante lavacri e abluzioni, tenèndosi lontani da lutti, contatti sessuali ed altre impurità, ed evitando di mangiar carni d'animali morti di morte naturale, triglie, melanuri, uova, animali ovìpari, fave ed altre cose da cui invìtano ad astenersi anche coloro che nei templi còmpiono le iniziazioni".
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"Perché l'amore e la morte non sono che una stessa cosa" (Pierre de Ronsard, "Sonnets pour Hélène").
Faust e Margherita, Aida e Radames, Enza e Lohengrin, Paolo e Virginia, Amleto e Ofelia, Werther e Carlotta, Alfredo e Violetta, Jacopo Ortis e Teresa, Mimì e Rodolfo... Ce n'è a josa di paradigmi del fatal connubio d'amore e morte. L'amore quale preludio di morte. E quanto più veemente e superno è l'amore, tanto più puntuale e rigorosa è la morte, secondo la terribilità del destino circa quest'arcana faccenda del cuore. Perché poi i grandi amori debbano di norma finir male sembrerebbe abbastanza chiaro: l'illusione, o meglio, la presunzione di sommuovere in virtù della magistrale tempesta amantesca la sonnolenta trazione dell'esìstere si sconta con lo smacco decisivo, ossia col risucchio anticipato nella "taciturna dimora" (Gadda) dove colpi di testa (o d'ala), ardimenti ed eversioni non più sono conceduti.
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Per ogni supporter del "Dubbio" ce n'è a migliaia del "Giudizio".
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Uno è difficile che sia fatto vuoi per l'elegìa vuoi per l'orgia; per lo spleen e per la sganasciata; per l'incantagione e per il sarcasmo; per il candore angelicato e per il fùmido satanismo. Ciascuno, uomo o artista, ha un'inclinazione fondamentale - il suo proprio "naturale" dicèvasi un tempo - una specie di Leitmotiv, o perno attorno a cui egli ruota, e donde s'irràggiano sì variazioni sul tema, ma assai di rado antìtesi ardite, o franche contraddizioni al tema stesso... Vedresti Verlaine dedicarsi a poemi èpici? Chopin comporre solenni oratori? l'Aretino scrìvere vite di santi?  Kokoscka pitturare lindi Olimpi? o Trakl far sonetti sull'arte del giardinaggio?
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Concordo con Novalis: fra tutti i veleni l'ànima è il più potente.
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L'ànima dell'Amèrica è molto più giòvane dell'ànima europea. La prima è una ragazzona bionda e prosperosa, ricca d'intraprendente ingenuità e di entusiasmi piacioni, e se di tanto in tanto le va storto qualcosa, la senti lamentarsi forte ma il mattino dopo è di nuovo corroborata e positiva. L'ànima europea invece è quella di un èssere irrimediabilmente avanzato nell'età, e come tutti i vecchi, è diffìcile prènderla per il verso giusto, smussarne la diffidenza, mitigarne lo sguardo in tràlice, lenirne i malanni crònici che sono pari ai suoi trofei e alle sue glorie di un tempo rimoto, ormai museo di flèbili rimpianti.
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Il filòsofo Leucippo, discèpolo di Zenone, dichiara nel libro "Dell'intelletto" che nulla si produce senza motivo. Sono convinto dell'esatto contrario: nella vanità del tutto, tutto si produce senza motivo al di là dei motivi apparenti.
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Due sono notoriamente i casi che contempla Oscar Wilde circa il rapporto tra crìtica e òpera d'arte in relazione al pùbblico. Qualora l'òpera d'arte si presenti con caràtteri di chiarezza e semplicità, la crìtica è affatto superflua. Qualora l'òpera d'arte appaia complicata e oscura, la crìtica diviene essa stessa molesta còmplice d'oscurità ed incomprensione. Tuttavia da Wilde non è considerato un terzo e temìbile caso. Vale a dire quello dell'òpera che, al di là della semplicità o della indecifrabilità, risulta noiosa tout-court. Quale la funzione della crìtica nella fattispecie? Complicato decìdere, poiché il crìtico colpèvole d'inutilità in rapporto all'òpera di per sé evidente, oppure colpèvole d'oscurità con l'òpera astrusa, è sempre meno colpèvole del crìtico noioso con l'òpera noiosa. Ché la noia, a differenza della semplicità e dell'oscurità, è soggetta ad un funesto raddoppio di sé. Onde si può comprèndere perché la crìtica, al fine di non apparir noiosa e serbarsi seducente agli occhi del lettore, sia indotta a giudicare "interessante" l'òpera che non lo è punto. E' forse un infame tradimento verso il pùbblico? Ma dai. E' il tentativo, umanissimo, del signor crìtico di non navigare sulla stessa barca dell'òpera votata al naufragio.
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Nessuno è idoneo a tutto. Anche l'intèrprete dà il meglio di sé, esprime la propria personalità artìstica nella maniera più esauriente nell'àmbito di un orizzonte, variamente ampio, di òpere legate da un comune denominatore che può riferirsi al gusto, alla sensibilità, alla struttura formale, o, in un'accezione più ampia, al clima spirituale cui insieme appartèngono, indipendentemente dalla loro contemporaneità o attiguità stòrica. Accosto all'òbblogo dell'oggettività di lettura, l'interpretazione non può èssere avulsa dalla peculiarità irrepetìbile del soggetto che intèrpreta e che reca nell'interpretazione il contributo, o comunque la presenza, del proprio mondo individuale. Quando la natura dell'òpera (e dunque dell'autore) e quella dell'intèrprete s'attràggono per manifeste o càrsiche affinità, l'òpera perviene alla vita di suono nella sostanza più completa e nella veste espressiva più felice. Quando la natura dell'òpera invece è estrànea a quella dell'intèrprete, l'òpera mostra insofferenza per il peso che il filtro interpretativo frappone fra la visione astratta definita sul pentagramma dal compositore e il potenziale inveramento di quella nella realtà spazio-temporale. La storia dell'interpretazione ci offre innùmeri esempi del fausto connubio tra autore e intèrprete: si pensi al Brahms di Bruno Walter, al Mozart di Walter Gieseking, allo Chopin di Alfred Cortot, al Wagner di Wilhelm Furtwaengler, al Ravel di Michelangeli, al Beethoven di Karajan e di Bronislaw Huberman.... e altrettanti casi di dissidio fra musicista e intèrprete: basti riferirsi al Bach di Karajan e al Beethoven di Toscanini...
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L'abitùdine è madre della monotonìa, e la costanza di un'abitùdine, osservava Proust, è di norma proporzionale alla sua assurdità.
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Lasciamo da canto la considerazione che in molti casi la fedeltà amorosa null'altro è se non pigrizia del cuore, e domandiàmoci piuttosto se la donna sappia èssere fedele (di certo ella è fedele quando la fedeltà non le è richiesta, osservava Kierkegaard). L'imbarazzantìssimo rompicapo ebbe nel corso dei sècoli risposte di segno opposto. L'atteggiamento razionalìstico, dalla Sofìstica del V sècolo a. C. n. sino alla cultura illuminìstica del sècolo dècimo ottavo, non nutrì mai soverchie illusioni al propòsito: e Sade, da par suo, additò addirittura riprovèvoli rappresaglie da realizzare contro l'infedeltà donnesca. Per contro, l'atteggiamento "idealìstico ", dall'angelicazione medievale della donna sino alla cieca fede dell'esaltazione romàntica, trovò ognora gratificanti risposte per l'orgoglio del sesso barbuto. Ma non va sottaciuta una corrente a sé, che nei tempi a noi recenti è andata e va tuttora infoltendo le proprie schiere, e il cui più antico esponente fu Plutarco di Cheronea, il quale sostenne non èsser degne le donne di vero amore non già per colpa della loro infedeltà, ma perché a questo mondo si còntano cose ed èsseri più di loro meritèvoli dell'amor virile.
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Stamane, di buonora, il mio pensiero è andato all'ufficio di collocamento.
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Alla mùsica, che per molti è soprattutto fonte di piacere, si confà più la sfera sentimentale che quella intellettuale: non solo per la risaputa intuizione pascaliana, ma perché il linguaggio dei suoni, comunque muova da un principio o da un ordinamento razionalìstico, approda sempre ad un'affermazione di squisito caràttere "patètico". Né mai è accaduto il processo inverso, a meno che non si voglia sofisticare. Tali i motivi onde siamo propensi, in linea di màssima, a predilìgere quegli intèrpreti, sìano essi solisti o direttori d'orchestra, che della mùsica sottolìneano la cifra fantàstica, la dovizia talvolta provocatoria dell'asemanticità del segno, l'ambiguità dei significati, o meglio, delle "immaginazioni" musicali, che si sciòlgono le une nelle altre, rigeneràndosi di continuo in inèdite e riservate prospettive. Dico di quegli intèrpreti che ci fanno sentire più l'uomo che la struttura, più il soffio poètico dell'artista che il suo ingegno architettònico, da cui quel soffio pur prende vita. E l'intèrprete, più si cala nel profondo, più procede per intuizioni, approssimazioni e analogie, (e non già per affermazioni), ponèndosi entro un vòrtice ove la sua sensibilità e quella del compositore si calamìtano e s'abbandònano ai recìproci fantasmi. La mùsica in sé che prescinda dal momento esecutivo e interpretativo non esiste se non come potenzialità astratta.
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Ogni uomo ha un prezzo; ogni donna una lusinga.
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Una sera di primavera passeggiavo per via Giulia brulicante di gente richiamata da una serie di manifestazioni musicali lungo la via. Mi fermai dinanzi alla minùscola chiesetta di Santa Maria del Suffragio, dove a porte aperte stava per conclùdersi il trascurato recital di un giòvane pianista. Vidi poi l'esiguo uditorio uscire insieme al solista dal tempietto barocco mentre vi entrava controcorrente un robusto signore con una voluminosa custodia a mano. Si volse dintorno ad ammirare gli antichi ornamenti dell'edificio. Quindi s'avvicinò quasi timoroso al transetto, prese la sediola usata dal pianista, la pose al centro, e vi si sedette. Aprì lentamente l'invòlucro, ne trasse un violoncello e lo puntò a terra. D'improvviso abbracciò lo strumento, alzò l'archetto e con gesto imperioso lo poggiò sulle corde. La chiesetta non risuonò del suono violoncellìstico ma di un monumentale accordo organìstico. Era una "Suite" bachiana cui erano impressi un tono e un'allure fantasmagòrici. La gente per via si bloccò dinanzi l'ingresso e cominciò ad entrare nel tempio, e più ne entrava più la ressa fuori aumentava come risucchiata dai sortilegi di un violoncello che stava trasformando la chiesetta in una Basìlica e l'effetto camerìstico di una Suite in una Messa corale. Giùnsero anche due vìgili urbani a regolare il tràffico pedonale intasato. E ci si dimandava: "Ma chi è quello che sta suonando là dentro?...", "Non era in programma questo concerto?...", "Sul giornale non c'era scritto niente...", e ci si alzava in punta dei piedi e s'allungava il collo per scòrgere il teurgo al transetto.... Conclusa la Suite, nel fragore delle plebiscitarie ovazioni e richieste di bis il gran signore si alzò, ripose lesto lo strumento nella custodia, si fece largo tra il pùbblico salutando con ràpidi cenni del capo, ùscì dalla chiesetta e si confuse fra la folla. Un minuto, e non c'era più.... Tra la calca un arzillo vecchietto dagli occhi liquidi e dalle spalle ricurve mi bussò al braccio e mi disse: "Ammàzzalo quant'era gaiardo! ma ce lo sai chi è?". Risposi: "Un russo, Mstislav Rostropovich, il più cèlebre violoncellista del mondo". E lui confuso: "Come cazzo se chiama 'sto fenòmeno?"
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Il Lambrusco o sia Frammento di diàlogo con Pavarotti ... So bene che a te, Luciano, piace mangiare. E vai matto per la cucina emiliana. Ma la bevanda?
 "Il Lambrusco, gran vino".
Però gli intenditori sono sòliti affermare che non si tratta di un vino importante...
 "Ma va là, tutte balle. Intendiàmoci, il Lambrusco non è un vino strutturato tipo il Barolo o il Cirò: fa ùndici gradi. Tuttavia quello secco, di buona qualità, non ha rivali... Mi raccomando, sempre in frigorìfero".
Scùsami, ho sentito dire che andrebbe bevuto a temperatura ambiente...
"Macché, neanche a discùterne. Il Lambrusco è un vino frizzante e si beve a temperatura ambiente a patto che la temperatura scenda a zero gradi. Di strada, il Lambrusco tiepido ne farebbe ben poca,   come la Coca cola tièpida"... (1980)
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Appena un secondo dopo ch'ero nato m'accorsi che la vita sarebbe stata una gran rottura di coglioni: e piansi, piansi come un ossesso.
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Cinque considerazioni sulla morte. 1. Lusisti satis, edisti atque bibisti: tempus abire tibi est (Orazio). 2. La morte di un uomo è meno affare suo che di chi gli sopravvive (Mann). 3. Quando qualcuno muore, il più delle volte si ha bisogno di motivi di consolazione non tanto per mitigare la violenza della propria pena quanto per avere una scusa di sentirsi così facilmente consolati (Nietzsche). 4. Le soleil des vivants n'échauffe plus les morts (Lamartine). 5. Death is the veil which those who live call life: they sleep, and it is lifted (Shelley).
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Rispetto ai vincitori gli sconfitti sono più "estetici.
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L'unità dell'ideologia wagneriana è radicale: saga, storia, leggenda, crònaca si risòlvono nella trascendenza della dimensione spazio-temporale, nell'identificazione della razionalità in un bagno di luce estàtica, nello scioglimento delle contraddizioni della coscienza nella catarsi di un mìstico panteismo. Da "Il vascello fantasma" a "Il crepuscolo degli Dèi", l'"umano" e il "sensibile", la materia del vìvere e del pensare, l'azione e la riflessione, la natura e le sue determinazioni cèdono i propri confini, oltrepàssano la misura del Sìmbolo, s'annùllano nel Suono che li riplasma nella contemplazione della loro "caduta" nell'Infinito. Dall'inizio della "Romantik" l'Arte aveva ambito al Tutto; con Wagner il rapporto si capovolge: evento straordinario, accaduto perché il linguaggio e l'architettura della mùsica hanno inverato della loro assolutezza la poesia, cui i contenuti del reale non più si adèguano ma se ne fanno aspirazione sublimata.




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