mercoledì 3 ottobre 2012

Terzo quaderno di considerazioni sparse

 Pensavo un tempo che, giunta la residua stagione del vìvere, non  fosse inopportuno approntarsi ad un consuntivo della propria esistenza. Lasciar da banda l'annosa coltivazione dei diversi saperi, per dedicare forte impegno ai problemi ùltimi posti dalla filosofìa. Pensavo che venisse il momento d'accantonare i valzer di Strauss e pure "L'arte della fuga" di Bach, smettere la lettura di Camilleri e Cassola e pure di Omero e Shakespeare, togliere i quadri di Schifano e pure di Rembrandt, per ricuperare o inaugurare le metafisiche di Platone e Aristotele, il tomismo medievale, l'empirismo di Hume... Pensavo che alla morte ci si dovesse presentare forniti della lùcida consapevolezza del nostro èssere....  Ma ho compreso che ero del tutto fuori strada, giacché se la morte è nullificazione dell'Io, scioglimento dell'èssere individuale nell'universale ed indistinto èssere, o non-essere, del Tutto, allora occorre andar incontro ad essa favorendo detto sgretolamento, senza frapporre ostàcoli che ci danneggerèbbero nell'ineludìbile "passaggio" dalla vita al nulla. Nell'estremo perìodo dell'esistenza è bene alleggerire il nostro spìrito, progressivamente frantumarlo e svuotarlo, per modo che nel fatale momento si trasformi in pòlvere senza dolore o angoscia: quale l'accadimento più ovvio del mondo. Il congedo da noi stessi non dev'èssere il precipitare di un enorme macigno nello stagno, ma lo scivolare di una piuma sull'acqua... Dunque in vecchiaia bando alle escatolgie, all'Io demiurgo, a Descartes e Leibnitz, ma in loro vece, quali sedativi dell'ànima e della sensibilità, le cose mìnime e inavvertite che dispòngono l'io ad appennicarsi e finire. Ad esempio, la scelta accurata del prosciutto e/o salame dal salumiere, la ricerca metòdica delle offerte al supermercato, l'ascolto delle canzonette melòdiche e dei fèstivals di Sanremo, la lucidatura quotidiana delle scarpe et cetera... Un'alienazione blàndula sì da conformare gradualmente l'io alla prospettiva del non-èssere. La morte verrà ed avrà i nostri occhi beati, inerti, reificati.
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Sono un fallito di qualità, come Fìgaro, di qualità. E se non mi toccasse vìvere sarei anche allegro.
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L'Europa s'affanna a curare ciò che giudica malattìa senza accòrgersi ch'è agonìa.
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 Sono stato generato senza il mio nulla osta. Sono stato partorito in Italia senza il mio nulla osta. Cresimato e battezzato senza il mio nulla osta. Educato senza il mio nulla osta... Quando sono diventato adulto, e avrei potuto infine decìdere di me, i giochi èrano ormai fatti, ed io inchiavardato a la funeste résignation.
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L'òpera disgregatrice del tempo non ha punto scalfito la natura dell'òrgano, che pare tuttora lo strumento musicale più propenso a solcare l'ocèano, o stagno, dell'ànima. Già la sua plenitùdine fònica appaga. Sontuoso, esso ci aderge meglio d'ogni altra voce alla sacertà e al fastigio dell'arte, ma anche agli ùltimi orizzonti spirituali che si dischiùdono e balùginano - di là dalle nostre intricate pene - nel rebussistico contatto dell'Io con l'assoluto, prima che la nostra attenzione torni all'àrido adempimento delle bisogna immanenti, ossia al gran macello, o bordello, del quotidiano esìstere. Ma è pur indiscutìbile che, rovesciata la medaglia e ben osservàtone il retro, l'òrgano si presta ad un imbarazzante equìvoco emozionale. A dirla schietta: l'effetto di una nuda nota suonata da un pianoforte, òboe o violino, non va oltre la propria limitatezza fìsica ed espressiva; nel mentre la medèsima nota realizzata dall'òrgano nella maravigliosa  totalità dei registri si amplia a cattedrale che fiammeggi e avvinghi il creato intiero. Per tacere, sul piano della prassi, del pòvero violinista, o violista, o cellista, che ha da durar fatica a cavare esatta e linda quella nota con il consumato archetto, nel mentre ad un qualsìasi organista - sia pure ragazzino - gli basta poggiar il dito su una apparecchiata tastiera dell'òrgano per ingenerare quell'iperboleggiante sognerìa metafìsica votata a  sferzare e spampanare l'immaginativa delle masse affatate.
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Domandarci che cosa ci sia dopo la morte è insensato come domandarci che cosa ci sia dopo il futuro. La risposta: "L'eternità" è del pari insensata giacché l'eternità esclude il divenire del tempo. O il tempo o l'eterno. Se fosse vero l'eterno, la morte non succederebbe alla vita ma coinciderebbe con essa... Donde l'ùnica domanda legittima: "Esisto o sono un fuoco fatuo del non-èssere?".
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Gli individui si capirèbbero assai meglio se, invece di scambiarsi parole, sollevàssero nottetempo lo sguardo alla volta stellata per scrutarvi la fitta costellazione dei pensieri recìproci.
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Beato il cieco che non vede la meta rispetto allo stolto che si danna a conseguirla.
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Che la miglior vendetta sia il perdono è vexata quaestio. Il perdono anestetizza la colpa del reo, così depotenziato nel corroborante sentimento del rimorso. Per altro verso il perdono uccide la natura, le energie, le difese del colpèvole, e sotto tal profilo esso costituisce un riprovèvole "eccesso di difesa" da parte della vìttima... Diciamo che all'uomo conscio dei propri lìmiti è lècito soltanto il peccare, dato che il perdonare, secondo si rileva anche nel "Saggio sulla crìtica" di Pope, vale un'invasione di campo nel Divino.
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Se hai ascoltato la mùsica di Bach, Mozart e Beethoven, hai ascoltato tutta la mùsica. Se hai letto la poesia di Dante, Shakespeare e Goethe, hai letto tutta la poesia. Se hai studiato la filosofia di Aristotele, Kant e Hegel, hai studiato tutta la filosofia. Se hai visto la pittura di Leonardo, Raffaello e Michelangelo, hai visto tutta la pittura... Ma se hai vissuto cento e cent'anni, non hai ancora vissuto neppure un'ora: sei in attesa, alla fermata di un tram che non passerà mai.
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Tanto la mùsica d'arte si è abbrutita coll'avanzare dei tempi che non parrà impresa irragionèvole cercarne altra, di specie diversa. Si bùttino a mare flàuti, cèmbali e viole, e la serqua d'òpere indecenti che nel sècolo trascorso strumenti ed ugole hanno impastato, e ci si volga all'impiego d'altre voci. Chi ha detto che il compositore debba continuare a curvarsi su un tàvolo per trascinare la penna riottosa su un liso pentagramma, o peggio, soccòmbere ad un marchingenio elettronico? E chi ha deciso che la mùsica sia un prodotto esclusivo della creatività umana? Auguriàmoci che il neonato sècolo sancisca la fine di questa sfibrata forma d'arte sicché ci si possa vòlgere ad un territorio incontaminato, o poco esplorato. Intendiamo quel canto che, lungo l'andar delle ore per le plaghe del mondo, la fantasìa della natura profonde. Demoliti teatri e auditori, edificati musei per allogare i sommi del passato, il nuovo linguaggio avrà per tempio ogni metro quadrato del pianeta, da cui caccerà i compositori rivelàtisi indegni di sì alto ufficio, e s'affiderà agli elementi del cosmo. La nuova stagione sostituirà le teorie di note con preludi di giunchi, madrigali d'aurore, rondò d'ocèani, ballate di brume, sonate di neve e duetti di foreste e pesci... Mùsiche elusive, recepite dal desiderio prim'ancora che dall'udito. E non più tenuto alla spasmòdica ricerca d'arzigògoli cacofònici o di bellurie neomelòdiche, il compositore si disporrà ad indagare con garbo pari a dottrina quelle fantasmagorìe perpetue come la verde etate degli Dei.
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Sono persuaso che il sentimento dominante l'uomo è l'egoismo (dichiarato o mascherato che sia). Ciò perché la natura, a propria salvaguardia, ha reso l'uomo totalmente assoggettato all'istinto di sopravvivenza, di cui risulta èssere schiavo ogni altro umano istinto.
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A volte, se vuoi rivelarti non hai modo migliore che nascònderti.
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Lo sappiamo bene: ci si abitua a tutto. E non ci sarebbe nulla di più ovvio che abituarci anche ai fùlmini a ciel sereno. Per fortuna il tempo provvede sollècito a rannuvolarsi, consentèndoci d'evitare  la depressione di una nuova noia e di restàrcene così in quella vecchia, consuetudinaria e àtona noia che direi, con paradigmàtico ossimoro, "abitùdine vitale".
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Chi mi assicura che la vita è il bene più prezioso, sono propenso a ritenere che non sappia il significato della parola "vita".
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Si dànno casi non infrequenti in cui non crèdere in ciò che si scrive sia la condizione indispensàbile per èssere creduti dal lettore.
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Voici mon école: Democritos, les Sophistes, Lucrèce, Montaigne, Spinoza, Voltaire, d'Holbach, Kant, Hume, Nietzsche, Heidegger et Sartre.
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 E' stato autorevolmente e verisimilmente affermato che "gli italiani àmano l'Italia, e che ben pochi fra loro cambierèbbero patria". Tra quei pochi ci sono io.
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Apprezzo le persone per bene. Apprezzo assai meno quanti fanno il bene soltanto perché inetti a fare il male.
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Se il problema fosse, come giùdica la classe polìtica, la crisi econòmico-finanziaria della vecchia Europa (e dell'appendice americana), esso racchiuderebbe in sé soluzioni a medio e lungo tèrmine.  Penso invece che la civiltà occidentale, esaurite storicamente le funzioni propulsive, abbia imboccato la via naturale del disfacimento, seguendo la sorte e le leggi che hanno segnato le civiltà precedenti... Oppure c'illudiamo che la nostra civiltà sia stata destinata all'eternità?
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Nessun professore, studio o mètodo fà apprendere quanto l'insegnamento.
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 La mia natura, naturalmente improntata a modestia, fà sì che io m'accontenti d'aspirare alla fama senza mirare alla gloria. Sarà forse per tal ragione riguardosa che ho sempre prediletto sugli altri il nùmero due. Donde il mio motto: "Meglio secondo a Delft che primo ad Amsterdam".
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Il fine dell'Utopia è la felicità; il fine dell'uomo è, più modestamente, non soffrire. A quest'ùltimo fine non sempre torna di giovamento la mùsica, nota sobillatrice dell'ànima, secondo quanto aveva intuito nell'Antico la riflessione di preclari filòsofi greci.
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 'Na vota la Notte s'imbatté nel Giorno e, sùbito 'ncanaruta, lo cazziò così: "Scrianzato, in 'sta maniera tu m'abbacini!". E 'o Juorno sentendosi utraggiato così ribatté: "Anche tu, Notte, mi fai cecato!"... Serràrono 'a vocca, e si dèttero le spalle. Non s'incontràrono mai più perché la Natura provvide a separarli e a distanziarli tràmite l'Aurora e il Tramonto, comunemente detti Melanconìa.
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Io ce l'ho messa tutta, ma mio malgrado ho sempre dovuto far i conti senza l'oste. Non si è fatto mai trovare: forse perché mi era debitore.
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 Nelle rarìssime occasioni in cui mi càpita d'avvertire in me una sorta d'inquietante impulso all'altruismo, mi adatto di buon grado a ricèvere espressioni complimentose, poiché vedo aleggiare sulle labbra di chi le fòrmula una sottile smorfia di piacere perverso, che non avrebbe mai provato altrimenti.
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 La dimensione dell'Arte e quella della Polìtica talvolta s'oppòngono l'una all'altra in un dissidio insanàbile. Valga di clamoroso esempio l'esperienza stòrica dell'ìtala gente che, lungo i sècoli, ha esemplarmente generato e coltivato il Bello e pervicacemente irriso e misconosciuto il Bene (qui coincidente con l'Utile).
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Sono andato dal mèdico per lamentare un molesto indolenzimento alle gambe. E lui: "Si esèrciti a saltare di palo in frasca". Ho seguito la prescrizione. Sono migliorato, e per di più ho perso il senso d'orientamento.
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Non sono poche le persone che si pìccano di giudicare senza èssere in possesso di un criterio di verità onde giudicare con un mìnimo d'apparente credibilità. Quel ch'è peggio è che molti altri s'arrògano il diritto di giudicare perché crèdono d'averlo in tasca, questo criterio di verità, senza accòrgersi che confòndono la "verità" con una loro personale "certezza". A scanso d'equìvoco sarà bene ricordare che la prima appartiene al mistero per noi imperscrutàbile del tutto; la seconda all'abissale ignoranza dell'èssere umano.
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 Pietosa fine dell'Io, dall'eròico affacciarsi di Cartesio ai miserandi funerali dell'Esistenzialismo.
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L'uomo ha due appigli: la fede e la ragione, che a sua volta ha un appiglio: il dubbio. Ma la fede è cieca, la ragione è zoppa ed il dubbio è notoriamente atroce. Chi dunque avrà la sfrontatezza di prèndersela con un uomo sì gràcile e disorientato?... Semmai c'induca a riflèttere quanto asserito da una diffusa religione monoteìstica: Iddio creò l'uomo a propria immàgine e simiglianza.
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Ascoltare i "Poemi sinfònici" di Richard Strauss e ingozzarsi di melassa fa il medèsimo effetto.
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 Le belle donne? Ha detto Proust: "Sìano lasciate agli uòmini senza fantasia". E le donne intelligenti? Ha detto Baudelaire: "Amarle è un piacere da pederasti". E le donne emancipate? Ha detto Colette: "Non sono donne". E le donne irose? Ha detto Shakespeare:"Sono come una fonte intorbidata, ch'è fangosa, vìscida, immonda, insomma priva d'ogni attrattiva di bellezza". E le donne volùbili? Ha detto Voltaire: "Sono come le banderuole: si fìssano solo quando si arrugginìscono". E le donne ricche? Ha detto Giovenale: "Intolerabilius nihil est quam femina dives". E le donne sincere? Ha detto Anatole France: "Sono sincere quando non dìcono bugie inùtili". E le donne acchittate? Ha detto il Belli: "La donna, fijo, è come la castagna, dicèveno Bertello e Bertollino, bella de fora, e drento ha la magagna".... Ma, in fin dei conti, sarà mai possìbile sapere che cosa sia la donna? Ha detto Pope: "Nel migliore dei casi la donna è una contraddizione". Ma forse meglio ha in orìgine detto Euripide: "La donna è il peggior dei mali".
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Ogni contrada pròvoca in me il desiderio di raggiùngerne un'altra. Ma ogni altra sùscita in me la melanconìa per quella lasciata.
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 Quando qualche insolente mi domandava a lezione che cosa sia l'Arte, tacevo fastidiato o rispondevo a casaccio con la prima definizione che mi balzasse in testa: attività razionale, espressione del sentimento, capriccio, impegno socio-polìtico, specchio dell'inconscio, proporzione e misura, esaltazione della fantasia, bàlsamo spirituale, eccitazione demònica, sensualità, ornamento, segno tangìbile dell'Assoluto etc... In ogni caso la domanda era, è tuttora e sempre sarà, assolutamente idiota.
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Come può l'uomo dar apprezzabile soluzione ai duri problemi che gli si presèntano se è egli stesso  parte costituente, o precipua, d'ogni problema?
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Immaginiamo il migliore dei mondi possìbili leibniziani, laddove nello spazio di un'alba potrebbe èssere stata fondata da Platone la Repùbblica. Immaginiamo che lì fiorisca l'ìsola d'Utopìa, al centro della quale barbagli la Città del Sole. In un suo chimèrico edificio progettato dall'architetto illuminista Claude-Nicolas Ledoux, ossia il perfettamente sferico "Ricetto per guardie forestali", adornato negli interni, mettiamo, dalle soavità pittòriche di Guido di Pietro, ebbene lì si potrebbe far mùsica. Fare mùsica non soltanto per suggellare la purità dell'incantagione, giacché senza mùsica c'illudiamo che gli accadimenti sìano nòccioli senza frutti, ma anche per rispòndere in maniera consona alle silenti sinfonie delle sfere celesti, di cui fùrono fornite lusinghiere testimonianze da numerosi filòsofi, da Pitagora a Boezio. Se quanto detto accadesse, l'ùnica mùsica cònsona a tanta armonia di cose e finitezza di spìrito, non potrebbe èssere che quella del sommo Salisburghese. Mozart o della perfezione, se per essa s'intenda aristotelicamente quanto è completo in ogni sua componente, quanto non può èsser superiore in eccellenza e quanto ha conseguito il proprio buon fine. Nella mùsica di Mozart c'è perfezione in sé di forma e contenuto, come si diceva una volta. Perfezione del loro rapporto, risolto in unità inscindìbile fuor di patimenti e travagli dell'artista, ma come calma necessità, come un disegno mandato ad effetto dall'andare sempiterno ed infallante dell'universo al proprio ordinato interno. Anche Johann Sebastian Bach è perfezione; ma il tedesco suole guardare la pianta dalla radice, l'austriaco dal fiore.
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Mi piace immaginare che anch'io ragazzino, come Céleste, la governante di Proust, ignorassi che Napoleone e Bonaparte fòssero la stessa persona.
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 La Repubblica platònica contemplava i sapienti (ossia i filòsofi) alla guida della cosa pùbblica. I sapienti, in quanto assurti all'alto officio, èrano "polìtici". L'uomo polìtico tout-court, com'è inteso al presente, risulta èssere una grave riduzione del sapiente platònico, o meglio, ne risulta un usurpatore.
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Quando la notte mi còrico assapòro l'intenso piacere dell'attesa: a breve scomparirò a me stesso.
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 Di norma il mio gusto estètico si è volenterosamente industriato ad aprirsi, talvolta non senza riluttanza in specie nell'àmbito novecentesco, alle più disparate esperienze stòrico-artìstiche della mùsica d'arte, tuttavia ha sempre ricalcitrato al cospetto vuoi della sfrontatàggine del Verdi "di galera" e "popolare", vuoi dell'acrìtica magnificazione che n'è stata fatta.
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Mi piace la tenerezza purché non oltrepassi la misura brahmsiana. Sono un pudico.
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Conversavo con una giovane signora che parlàndomi arrossiva di continuo. Ad un punto della conversazione mi sono stizzito e le ho detto con tono quasi risentito: "Amàbile amica, non c'è bisogno alcuno che Lei sottolinei tutto ciò che dice: lo capisco perfettamente".
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Dopo la lettura di un "clàssico", anche se l'avrò in buona parte dimenticato, la mia sensibilità ne resterà segnata a vita, così come ciò che è passato mi svanisce dalla memoria, ma sovente affiora un nuovo "io", generato da quel passato per me non più esistente.
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 I) 'E primm'acchitto s'appìcciano le mene della Carne, et voilà la Ménade de le désir danser la Sardane éternelle de l'Amour fou....
II) Poi alle vertìgini della fosca Vampa succede la deposizione della Carne, e il Desiderio ormai grave d'anni e obnubilato spira inavvertitamente fra le braccia dell'Abitùdine.
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Dio è una parola. L'esistenza di una parola.
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Che agli altri non interessi punto quanto vo scrivendo mi lascia indifferente. Per contro, mi dispiace un po' che non interessi neppure a me. "Ma allora perché scrivi?" mi si potrebbe domandare. "Per non pensare" risponderei. Ché se scrìvere è vano, pensare è fatale.
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 ...mi piace in ùltimo imbèvermi di silenzio. Quel silenzio nel quale sopravvive tutto ciò che non può èssere vituperato dalla parola, intorbidato dal pensiero, rattristato dalla mùsica. In quel silenzio non mi ferisce ripulsa, e come arenaria si sfalda il tòssico corteggio dei dubbi, e un'arcana quiete mi colora di sé gli ùltimi rimpianti. In quel silenzio dove si confòndono in un'ùnica sorte capire e non capire.
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Patria mia è il mio fùmido cuore, popolato dai fantasmi del suo sommerso bàttito.
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All'Inferno scòntano la sempiterna e inenarràbile pena geni sublimi, di fronte ai quali l'umanità sempre s'inchinerà ammirata e grata.
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Divàmpano più ènfasi e rettòrica nella mùsica dello "stùpido" Ottocento che in quella degli altri sècoli, dal Canto gregoriano ai giorni nostri.
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Noi non comunichiamo. C'indoviniamo.
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Ogni risveglio mi è Natale, ma ogni tramonto Passione.
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 Chi è disposto ad inseguire la felicità sappia che il prezzo da pagare, non appena raggiunta, sarà la melanconia.
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Conosco persone che dietro l'urbanità delle maniere occùltano una micidiale aridità.
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 Diffido delle ànime ecumèniche. Somigliano a quegli empori affollati dove trovi di tutto ma non vi compri niente. Sono ànime senza porte: vi puoi entrare da ogni parte, ma da ogni parte puoi precipitarne. Meglio soli che mal miscelati.
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Come un Dio mi òccupa uno spettro. Che come un Dio ignoro e gli dò vita.
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Le costruzioni dell'ànima mi si sgrètolano al primo àlito di vento, se intraprese senza il fero nulla osta della realtà.
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La lenta e maestosa agonia dell'Europa galvanizza quanti, affetti da monotonia, ambìscono ad assaporare i frutti delle grandi svolte stòriche.
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 Quando mia madre venne meno, il desiderio di lei lo commisi alla rinuncia. Osservando nello scòrrere del tempo lo stato di quella rinuncia intuii che ogni grande rinuncia tende a metamorfosarsi in un desiderio cristallizzato.
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Amici, stàtene certi: se perforo la mia ànima nel punto giusto, ne zampillerà, come petrolio, un'allegrìa ubriaca!
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Se l'uomo fosse dotato di lìbero arbitrio, secondo assevera taluno, la sua condotta sarebbe da tenere per la cosa più ridèvole dell'universo mondo.
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Se guardo indietro, posso affermare che mio maestro ideale, bùssola spirituale, punto di riferimento della mia vita intellettuale, è stato, ed è tuttora, Voltaire. Sorta d'evangelo làico.
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 Non amo quel Paese nel quale sono nato per dispetto di una sorte maligna. Non amo quel paese dove allìgnano da sècoli la corruzione, la bècera drittaggine, il gretto tornaconto, il particolarismo. Non amo quel Paese dove il senso dello Stato è affatto latitante non meno della coscienza nazionale e del senso cìvico. Non amo quel Paese dove la classe polìtica è adempiuta espressione di una società egoista, pronta alle làcrime di commozione ma sùbito appresso al conseguimento, ad ogni costo, dell'interesse personale. Non amo quel Paese dove la diffidenza governa i rapporti sociali e dove la risata suole sostituire la riflessione. Non amo quel Paese dove la salute dei cittadini, l'istruzione pubblica, la ricerca scientìfica, l'arte sono argomenti marginali cui lo Stato non dèdica precipue risorse. Non amo quel Paese metà del quale è condizionata dalla criminalità organizzata, spesso collusa con il potere polìtico e amministrativo. Non amo quel Paese che ignora volutamente l'ideale democràtico della laicità dello Stato. Non amo quel Paese il cui motto sembra èssere: "Tutto cade sotto il dominio del compromesso". Non amo quel Paese dove la morale è sostituita dal moralismo,  la progettualità dall'improvvisazione, la legge dal cavillo, il dovere dalla tolleranza, la tolleranza dal menefreghismo, la religione dal pregiudizio. Non amo quel Paese dove, nell'andare delle èpoche e delle civiltà, la dominazione straniera è stata accettata passivamente, quando non sollecitata e gradita....
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Se avessi il secondo figlio maschio gli metterei nome "Sette". Mi piace la forma del nome, con quella "S" iniziale che prende di un elegante geroglìfico e insieme di un senso slanciato e ascensionale della visione del mondo (ciò che i tedeschi notoriamente dìcono "Weltanschauung"). A cui sèguono le "e" e le "t", in successione rimata di ABBA. Le due "e" estreme, che sono, tra le vocali, quanto di più raffinato e sensuoso vi sia; e le due "t" centrali, che rècano al nome dell'uomo un'immàgine di autorèvole solidezza e tenace equilibrio. Ma "Sette" chiamerei il figliolo anche per i significati multànimi che comprende in sé il nùmero. Vediamo di sèguito.
Sette sono i giorni della settimana: da lunedì a domènica, ed occuparli tutti è senza dubbio un òttimo  punto d'avvìo. Si consìderi inoltre che sette fùrono i Sapienti dei sècoli VII e VI (a. Ch. n.), le cui ponderazioni morali tradotte in fulminee sentenze costituìrono le fondamenta del filosofare della civiltà greca, di cui tutti siamo debitori (e, peggio per noi, traditori): voilà Talete di Mileto passionato d'acqua, Biante di Priene, Pittaco di Mitilene, Solone legislatore in Atene, Cleobulo di Lindo, Chilone di Lacedemone e Mirone Cheneo....
  Dalla sfera filosòfica a quella teològica: ancora sette sono i sacramenti posti a base dell'iniziazione e della vita cristiana, dalla nàscita alla morte: Battèsimo (i bimbi che dovèssero morire prima d'aver ricevuto il Battèsimo, la Chiesa li commette alla divina misericordia); Crèsima (o Confermazione ovvero Unzione, ad irrobustire la Grazia battesimale); Eucarestìa (Sacramento prìncipe, istituito da Gesù il Giovedì Santo); Penitenza (da porre in èssere, volendo, anche con digiuni, orazioni e lemosine); Unzione degli infermi (gli infermi sono per qualche arcana via legati al peccato, e tuttavia grazie a questo sacramento si avvicìnano alla passione di Cristo in croce; ed a taluno è conceduto ricuperare fin la salute); Ordine sacro (episcopato, presbiterato e diaconato: tre gradi riservati ai battezzati di sesso virile); e Matrimonio (indissolùbile, stante che il marito ha da amare la moglie come Cristo la Chiesa). Sette le virtù, tra teologali e cardinali. Le prime tre sono Fede, Speranza e Carità. Le seconde quattro, già note all'antichità greca, Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza. Onde colui che portasse il nome "Sette" sarebbe indotto ad opinare, non senza fondate ragioni, che tanta manna di virtù disparate potrebbe all'uopo trattenerlo sulla retta via, quanto meno non farne un bischeraccio, un malandrino tùmido di vizi (che sono pressoché l'esatto contrario delle virtù).... Sette pure i "dormienti di Efeso" vìttime delle persecuzioni cristiane nella metà del terzo sècolo p. Ch. n.: i santi Costantino, Dionisio, Giovanni, Massimiano, Malco, Marciano e Serapione, di cui tràttano, fra le altre fonti, il "Martyrologium Romanum, Gregorio di Tours e Paolo Diacono nella "Historia Langobardorum". Ancora, sette i dolori patiti da Maria addolorata, o Addolorata tout-court, o Mater Dolorosa: l'annuncio da parte dell'anziano Simeone dei dolori che ella dovrà sopportare, la fuga con Giuseppe in Egitto per salvare Gesù, la pèrdita di Gesù dodicenne nel Tempio, l'incontro di Maria e Gesù lungo la via crucis, Maria ai piedi di Gesù crocefisso, Maria con Gesù morto tra le braccia, Maria accanto a Gesù sepolto. Né sia trascurato che sette sono le parole di Gesù in croce. E che sette sono i doni dello Spìrito Santo, ossia sapienza (ben rammentando che "la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio", giusto San Paolo), intelletto (quel bene che se lo perdi sono dolori, giusti i versi 17-18 del terzo Canto del dantesco "Inferno"), consiglio, fortezza, scienza ("Scientia et potentia humana coincidunt", a parere di Francesco Bacone), pietà (attenzione però: "non si può piangere per tutti, è al di sopra delle umane forze: tocca scegliere", Jean Anouilh) e timor di Dio ("Chi teme il Signore non ha paura di nulla", cfr. Ecclesiaste, 34, 14)....
Dallo scomparto teològico-evangelico si passi al linguaggio dei suoni, e si vedrà che sette sono altresì le note musicali  monosillabicamente denominate: do, re, mi, fa sol, la, si. Se con queste note Bach ha composto un capolavoro quale la "Messa in si minore", Beethoven la "Settima" e Wagner la "Tetralogia", è pur vero che esse non sono state sufficienti (nel nùmero,  nella sostanza) ad evitare infinite bùfale ad infiniti orbi di talento, seppure gli stessi avèssero oppresse le magnìfiche sette con una serqua di diesis, doppi diesis, bemolli e doppi bemolli... E pure sette sono le chiavi (nell'insieme dette setticlavio) nelle quali collocare le note del pentagramma: basso, barìtono, tenore, contralto, mezzo soprano e soprano (me ne sono dimenticata una).... Ancora: quante se non sette le maraviglie del mondo? Tali giudicate nell'Antico la piràmide di Chèope a Giza (l'ùnica "meraviglia" sopravissuta fino ai nostri dì); l'immane statua del colosso di Rodi nell'omònima ìsola; il tempio d'Artemide ad Efeso (Turchia); il faro d'Alessandria d'Egitto; il mausolèo di Alicarnasso (Turchia) ov'è sepolto Mausolo il sàtrapo; la statua di Zeus scolpita da Fidia ad Olimpia; i giardini pènsili di Babilonia, ove la reina Semiràmide, assidua ciulatrice e sottile politica, andava cogliendo rose rugiadose in ogni stagione dell'anno.... Il "sette" nel macrocosmo ma pure nel microcosmo: ordunque, i sette nani dei fratelli Grimm: Màmmolo il soave, Cùcciolo il calvo, Bròntolo l'incazzato, Eolo il raffreddato, Dotto l'addottrinato, Gòngolo il beato e Pisolo l'appennicato. E nel nome dell'ipotizzato figliuolo ecco, con un balzo in alto, i sette sigilli dell'Apocalissi, in verità affatto esotèrici e allora meglio pensare alla tragedia "I sette contro Tebe" di Eschilo che fortemente conturbava Goethe, o al poema didascàlico de "Le sette giornate del mondo creato" che Torquato Tasso derivò dal poema "La settimana" del poeta ugonotto francese Guillaume de Salluste signore di Bartas, o a "Le sette làmpade dell'architettura" scritte in un inglese ipersquisito dall'ineffabile John Ruskin, o a "I sette pilastri della saggezza", contributo alla storia degli àrabi, di Thomas Edward Lawrence...
Con un altro balzo ardimentoso trasferiàmoci sui sette colli su cui fu costruita la mediorientale, dilombata e irònica capitale dello Stivale, ossia Palatino (il primo ad esser popolato), Aventino (dove si manifesta il proprio fiero dissenso), Campidoglio, Esquilino, Viminale (dove s'esèrcita da lunga pezza l'occhio industre delle forze dell'òrdine pùbblico), Quirinale (dove sventola il tricolore presidenziale della Repubblica) e Celio (ospedaliero). E sopra i detti sette colli quiriti, su su nel silente bleu, le sette stelle dell'Orsa maggiore: Alioth (la principale), Dubhe, Merak, Phecda, Megrez, Mizar e Alkaid.... Per nulla trascuràbili le sette (o dieci) tremendìssime piaghe che Iddio inflisse agli egizi dèditi ad aspreggiare gli israeliti: l'una peggio dell'altra come narrato nel Libro dell'Esodo: tramutazione dell'acqua in sangue; infausta invasione di rane, zanzare, mosconi e cavallette; morìa del bestiame; ùlcere sul bestiame e sugli èsseri umani; grande gràndine et tetre tènebre; immisericorde morte dei primogèniti maschi....
Torniamo a noi. Sette i lunghi e travagliosi anni, dal 1756 al 1763, della guerra che invase l'Europa oltre che l'Amèrica del Nord e l'Asia, e vide schierata la vincitrice Gran Bretagna alleata alla Prussia contro la coalizione di Francia, Austria e Russia... E per finire, e sovrattutto, sette sono i veli di cui gradualmente la fatalona e perversa Salomè alleggerì la propria virginale carne nel corso dell'omònima danza al fine d'ottenere da Erode, in atto d'assai licenzioso spettatore, la capa decollata di Giovanni il Battista. Che poi l'obbrobriosa ottenne servita su un argenteo vassoio (o guantiera), ahilei! (e ahilui!)....
 Che più vuoi, potenzial figlio mio Sette?




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